Licenziamento economico del lavoratore somministrato in "staff leasing"

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Quali sono gli obblighi per la ricerca di altra collocazione del lavoratore somministrato gravanti sull'impresa somministratrice prima di poter procedere al licenziamento?

Con la recente sentenza del 31 gennaio 2022, la Corte di Appello di Napoli traccia il perimetro degli obblighi che incombono sull’agenzia somministratrice nel caso di lavoratrice assunta in somministrazione a tempo indeterminato (cd. "staff leasing") che, conclusa la missione presso il soggetto utilizzatore, viene poi licenziata per giustificato motivo oggettivo, decorso un periodo di disponibilità.

Valutato legittimo il licenziamento in primo grado, ritenendosi fondato il motivo oggettivo fatto valere e idonei i tentativi vani di ricollocazione della lavoratrice, la ricorrente, assistita da Legalilavoro Napoli, impugnava la decisione innanzi alla Corte di Appello. La Corte, con la pronuncia in commento, compie anzitutto una interessante disamina circa le obbligazioni che il somministratore deve rispettare nel periodo di disponibilità, anche alla luce dei principi di correttezza e di buona fede.

In linea generale, la Corte ricorda che è ormai consolidato il principio secondo cui l’onere di individuazione di occasioni di reimpiego ricade esclusivamente sul datore di lavoro (Cass. 5592/2016, Cass. 12101/2016, Cass.160/2017, Cass 24882/2017; da ultimo Cass. 6084/2021 secondo cui «in materia di repechage non sussiste alcun onere di collaborazione da parte del lavoratore, questo gravando esclusivamente sul datore di lavoro, posto che la l. n. 604 del 1966, art. 3, richiede: a) la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente, senza che sia necessaria la soppressione di tutte le mansioni in precedenza attribuite allo stesso; b) la riferibilità della soppressione a progetti o scelte datoriali - insindacabili dal giudice quanto ai profili di congruità e opportunità, purché effettivi e non simulati - diretti ad incidere sulla struttura e sull'organizzazione dell'impresa, ovvero sui suoi processi produttivi, compresi quelli finalizzati ad una migliore efficienza ovvero ad incremento di redditività;
c) l'impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore. L'onere probatorio in ordine alla sussistenza di questi presupposti è a carico del datore di lavoro, che può assolverlo anche mediante ricorso a presunzioni, restando escluso che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili»).

Riguardo all'onere della prova del datore di lavoro, nel caso di specie, la Corte lo ritiene non soddisfatto in quanto è del tutto insufficiente la prova fornita dal somministratore circa l’oggettiva impossibilità di reperire per la lavoratrice somministrata una collocazione lavorativa in profili compatibili con la sua professionalità.

In particolare, osserva la Corte, è inidoneo a comprovare tale impossibilità il semplice fatto (dedotto dalla somministratrice) di aver effettuato alcune telefonate ed inviato qualche mail. Il tutto, peraltro, soltanto negli ultimi due mesi del periodo di disponibilità, prima del licenziamento, e solo per poche volte, rimanendo invece totalmente inerte precedentemente per oltre quattro mesi.

Non solo. Nel caso di specie «l'esame delle mail allegate evidenzia l’invio ad alcune società di profili professionali (più di uno nella medesima mail) descritti in maniera incompleta e comunque generica, senza peraltro che vi sia neppure riconoscibile quello della ricorrente, visto che detti profili sono anonimi o al più connotati da iniziali».

Dagli argomenti sopra riportati la conclusione della Corte, secondo la quale le motivazioni dedotte dalla somministratrice, sia per il ridotto ed inconsistente numero di tentativi, sia per il fatto che gli stessi sono risultati pochi, sporadici e concentrati negli ultimi due mesi, non sono idonee a provare l’adempimento del suo onere in senso oggettivo ed, al contempo, è rinvenibile una condotta non conforme agli obblighi di correttezza e buona fede.

La Corte, poi, si dilunga circa la questione della quantificazione dell’indennità spettante alla lavoratrice in conseguenza dell’accoglimento dell’appello, ai sensi dell’art. 3, d.lgs. 23/2015 (c.d. "Jobs act").

Anzitutto, ricorda che la Corte Costituzionale, con sentenza 194/2018 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell' art. 3 comma 1, d.lgs n. 23/2015, nella parte in cui determina l'indennità in un importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio in quanto «non realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell' impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall'altro».

Dunque, dovendosi, nel rispetto dei minimi e dei massimi individuati dalla legge (6-36 mensilità) tenere conto anche dell’anzianità di servizio, del numero di dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica e del comportamento e delle condizioni delle parti, il collegio partenopeo ritiene equo, nel caso di specie, il pagamento di 15 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.

Particolare interesse suscita l’argomentazione posta a fondamento della scelta di non parametrare il dovuto all’indennità di disponibilità percepita dalla ricorrente, bensì (appunto) all’ultima retribuzione. Tale scelta è adottata «sia in considerazione della lettera della legge, sia in ragione della natura della predetta indennità, sia, ancora, del fatto che la collocazione in disponibiltà della ricorrente non può ritersi scollegata dalla responsabilità della (somministratrice) la quale ha posto in essere un licenziamento illegittimo per il mancato reperimento di altre occasioni di lavoro, repechage, che non può essere ritenuto elemento esterno della fattispecie». Dunque, chiarisce la Corte, laddove sia ravvisabile un’ipotesi di imputabilità alla società della risoluzione del rapporto, l’indennità va parametrata all’ultima retribuzione.

Sul punto, è richiamato un precedente della Suprema Corte, Cass. 29105/2019, secondo la quale «nell'ambito del contratto di subordinazione (a tempo indeterminato) intercorrente con l'agenzia di somministrazione, la cessazione della missione presso l'utilizzatore, non è sufficiente a giustificare il recesso (per giustificato motivo oggettivo) dell'agenzia atteso che ciò non fa venir meno, da una parte, l'obbligo di disponibilità del lavoratore a tempo indeterminato e, dall'altra, l'obbligo di reperimento di altre occasioni di lavoro in un arco di tempo congruo: la ricerca di altra occupazione ai fini dell'obbligo di repechage finisce, dunque, per coincidere con l'oggetto dell'adempimento contrattuale dell'agenzia nei confronti del dipendente. Se, dunque, il licenziamento si appalesa illegittimo per insussistenza della ragione tecnica, organizzativa e produttiva dedotta nella lettera di licenziamento (nella specie, il lavoratore ha concluso la missione nonostante non sia risultata provata la contemporanea interruzione del contratto commerciale tra datore di lavoro-utilizzatore e agenzia), l'indennità prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, mira a risarcire le conseguenze retributive e contributive del danno da mancato adempimento e va commisurata alla retribuzione percepita dal lavoratore presso l'ultimo datore di lavoro-utilizzatore. La soluzione è coerente con le statuizioni di questa Corte dirette ad affermare che la funzione del risarcimento della L. n. 300 del 1970, ex art. 18, è, sostanzialmente, quella di ripristinare lo status quo ante, attraverso la corresponsione al lavoratore di quanto (e non più di quanto) avrebbe percepito se non vi fosse stata l'illegittima estromissione, di fatto, dall'azienda [...]. Ebbene, nell'ambito del contratto di somministrazione, a fronte della insussistenza della ragione inerente l'attività produttiva, l'organizzazione o il funzionamento dell'azienda concretatasi nell'illegittima interruzione della missione nella quale era impegnato il lavoratore, l'indennità risarcitoria di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, deve ripristinare lo status quo ante rappresentato dallo svolgimento dell'attività lavorativa presso il datore di lavoro-utilizzatore, con commisurazione del risarcimento alla retribuzione dallo stesso percepita e non all'indennità di disponibilità corrisposta negli ultimi mesi del rapporto di lavoro (a seguito della illegittima estromissione dall'attività lavorativa presso il datore di lavoro-utilizzatore). Il suddetto principio non si pone in contrasto con la recente pronuncia di questa Corte (cfr. Cass. n. 181 del 2019) che, in sede di valutazione della illegittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo da parte di un'agenzia di somministrazione, ha ritenuto corretta la parametrazione dell'indennità risarcitoria della L. n. 300 del 1970, ex art. 18, all'indennità di disponibilità (di natura retributiva) percepita dai lavoratori al momento del licenziamento, essendo stato accertato in detta fattispecie che la collocazione dei lavoratori in disponibilità era avvenuta per fatto non imputabile all'agenzia di somministrazione. Invero, considerata la peculiarità del contratto di somministrazione, la ratio della individuazione del parametro a cui commisurare l'indennità risarcitoria ha rispettato il medesimo criterio della considerazione del tipo di danno subito dal lavoratore, la prosecuzione della missione ossia del rapporto di lavoro presso l'utilizzatore, nel presente caso, la prosecuzione della disponibilità del lavoratore (a tempo indeterminato) nel caso già esaminato da questa Corte».

Ora, a parte la (a sommesso avviso di chi scrive) francamente dubbia sovrapponibilità delle due fattispecie (ossia, illegittimità del licenziamento per indebita interruzione della missione, da una parte, e per violazione dell’obbligo del repechage, dall’altra), ciò che interessa rimarcare sono due principi innanzi espressi dalla Suprema Corte e richiamati dalla Corte di Appello di Napoli.

Da un lato, la ricerca di altra occupazione ai fini dell'obbligo di ricollocamento, che consiste nell'oggetto dell'adempimento contrattuale dell'agenzia nei confronti del dipendente in disponibilità.

Dall'altro lato, in caso di illegittimità del licenziamento di lavoratore in staff leasing, che l'indennità da riconoscere deve mirare a risarcire le conseguenze retributive e contributive del danno da mancato adempimento e che per tale ragione va commisurata alla retribuzione percepita dal lavoratore presso l'ultimo utilizzatore.


contributo a cura di Luca De Simone

Legalilavoro Napoli

(A. Napoli 31 gennaio 2022)

23.02.22
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